TARTUF(F)I AI LAGHI DI MONTICCHIO
di Patrizia Lionetti
Una giornata ai laghi di Monticchio. L’invito rivolto ai soci della ASCIL è stato accolto con entusiasmo.
E’ il 19 novembre 2016. Il tempo è bello, la temperatura ideale. Si parte. Una rappresentanza di intrepidi esploratori dell’ASCIL, insieme a studenti dell’UNIBAS, si avvia per l’avventura.
In lontananza, ancora a decine di chilometri di distanza, il monte Vulture si svela davanti al nostro cammino. Non avevamo bisogno di conoscere la strada da percorrere perché la sua sagoma imponente ci ha guidato.
Il monte Vulture è un vulcano spento situato al confine settentrionale della Basilicata, la cui attività eruttiva risale al periodo del Pleistocene superiore, circa 126000 anni fa. Per le sue condizioni microclimatiche e floristiche ospita una bellissima e rara falena, l’Acanthobrahmaea europaea.
Le nostre auto, raggiunte le sue pendici, attraversano un breve tratto della folta ed imponente vegetazione arborea lasciando pregustare il momento dell’arrivo e della cerca. Giunti alla méta, parcheggiamo le macchine lungo la lingua di terra che costituisce l’istmo di separazione dei due laghi di Monticchio. Di fronte a noi si materializza uno spettacolo naturale molto suggestivo. La caldera colma di acqua, sulla cui superficie galleggiano le grandi foglie di Nymphaea alba, è circondata, da scoscese sponde che ospitano una pluralità di specie arboree che vi si specchiano: ontani napoletani, castagni, faggi, cerri, aceri e frassini. Questi ultimi (Fraxinus angustifolia subsp. oxycarpa) costituiscono, appunto, l’habitat elettivo del raro lepidottero riscoperto nel 1963 dall’entomologo Federico Hartig. Nel folto della vegetazione dagli splendidi colori autunnali, si scorge una struttura massiccia e candida. E’ l’Abbazia di San Michele, un antico convento costruito nell’VIII secolo d.C..
Ci inerpichiamo nella foresta, immediatamente al di sopra della flora ripariale. Nonostante siamo a una quota di circa 650 metri di altitudine, la presenza del faggio (Fagus Sylvatica) è prevalente rispetto alle altre essenze arboree, a confermare quella particolarità climatica ed ambientale conosciuta con il termine di “inversione termica”. Pertanto, grazie alla presenza dell’acqua dei laghi, a condizioni pedologiche particolari ed al clima fresco e umido che permane anche in estate, le fasce vegetazionali di questo bosco si presentano anch’esse invertite.
Alla testa del gruppo Doc e Scilla, zigzagando, fanno da apripista. Schizzano di qua e di là tra un cespuglio e l’altro, annusando il suolo. Una corsa frenetica alla ricerca di ineguagliabili composti volatili che, abbandonando la preziosa pepita che li genera, attraversano il terreno.
1, 2, enne tartufi si materializzano nelle nostre mani, preziosi doni della terra. Il profumo è gradevole, l’esoperidio bruno-nerastro è percorso da verruche piramidali sporgenti. Sono Tuber aestivum. Obiettivo raggiunto!
Tra una sosta e l’altra, mentre si ricompongono delicatamente le buche scavate per non mettere a rischio la conservazione dei “giacigli” naturali dei funghi ipogei, si osserva la micoflora epigea che man mano si incontra lungo il percorso. Di ogni specie vengono esaminate le caratteristiche morfologiche e enunciate le qualità di commestibilità. L’occasione è preziosa per dirimere dubbi determinativi, per discorrere di tradizioni alimentari connesse al mondo micologico e per accennare a principi di micotossicologia.
Il bosco ci presenta diverse poliporaceae come la Postia stiptica dall’inequivocabile sapore astringente, Ganoderma applanatum, Polyporus picipes, Trametes versicolor, Fomes fomentarius. Quest’ultimo desta molta curiosità quando viene descritto come elemento ritrovato nel corredo di sopravvivenza di Otzi, la mummia di Similaun che, nel IV millennio a.C. se ne serviva come esca di innesco per accendere il fuoco (qualità che conferisce il nome al fungo).
Abbiamo potuto apprezzare la bellezza di un Geastrum fimbriatum e del sistema di dispersione delle spore di questo gasteromicete. Abbiamo discorso della commestibilità di Auricularia aricula judae e su come distinguere l’Hydnum rufescens dal suo cugino H. repandum ( steccherino dorato).
Un vecchio tronco morto di faggio ci invita ad osservare una colonia di Herycium coralloides ormai degradata dal tempo e dall’età. La sua presenza, tuttavia, ci sprona a tornare in quei luoghi, per poterne apprezzare lo splendore, quando il prossimo anno spunterà nuovamente.
Una giornata all’insegna della condivisione di saperi, esperienze, educazione ambientale, non poteva che concludersi gustando pietanze impreziosite da profumate fettine color nocciola marmorizzato.
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